Sembra provenire da un
altro mondo la sceneggiatura Chasing White Infinity. E non solo perché il copione è ambientato
in un futuro non troppo lontano. L’autrice del testo si è formata in effetti
sotto la guida di due docenti d’eccezione, Bauer e DeSmet, e si è accostata al mondo
del cinema con uno stile internazionale.
La Marinelli, blogger, drammaturga, scrittrice di romanzi e sceneggiatrice di diversi corti (tra cui il fortunato Un amato funerale), si sta confrontando col mercato americano e sta cercando di vendere il suo spec script di
ski-fi grazie alle tante opportunità che ora offre il web.
Abbiamo incontrato la
sceneggiatrice Claudia Marinelli e le abbiamo posto alcune domande[1].
Hai frequentato un “Intensive
Screenwriting Workshop” a Spoleto con Irv Bauer e poi, presso l’università del
Wisconsin, il corso tenuto da Christine DeSmet “Write Your First Draft Fast”.
Quali sono stati i principali insegnamenti di questi due laboratori internazionali
e che tipo di approccio hanno avuto i tuoi due insegnanti, Bauer e la DeSmet,
al processo della scrittura?
Quando ho deciso di frequentare un corso di sceneggiatura per
il cinema ho fatto approfondite ricerche in rete e sono approdata al sito di
Irv Bauer. Volevo, come primo approccio, un corso intensivo in inglese e la
possibilità di un contatto diretto con i professori. Il corso di Irv offriva
proprio ciò che desideravo nella splendida cornice di Spoleto. Nell’agosto 2011
al corso “Intensive Screenwriting in Spoleto” si iscrissero sei “alunne”
inclusa la sottoscritta: tutte donne non lontane di età ma provenienti da
esperienze di vita totalmente diverse. Il corso era finalizzato alla stesura di
un cortometraggio della lunghezza massima di venti minuti. Irv ci ha guidato
passo passo partendo dal personaggio. Il primo compito era appunto inventarsi
un personaggio nuovo al quale non avevamo mai lavorato prima, non una storia.
Sotto la guida del professore, lavorando sodo, tutte e sei le alunne hanno trovato
le storie per i personaggi inventati. Ad ogni lezione Irv introduceva un
elemento nuovo: un dialogo con un altro personaggio (poteva anche essere
l’antagonista), la scrittura della scena d’apertura, la transizione e così via… E la storia si è scritta da sé.
In effetti se i personaggi son costruiti bene, se sono coerenti la storia se la
scrivono da soli e noi sceneggiatori dobbiamo solo “lasciarli fare” e raccontare
ciò che fanno. È
stata un’esperienza “magica” e appassionante. Irv ci ha anche dato i primi
rudimenti di formattazione, senza però porre l’enfasi sulla forma: l’importante,
ci diceva, era scrivere una bella storia per il nostro personaggio.
Con Christine DeSmet l’esperienza è stata diversa per tre
motivi: conoscevo a fondo il mio personaggio e la sua storia prima di
cominciare, perché avevo deciso di adattare un mio romanzo, avevo scritto alcuni
cortometraggi ed ero diventata più “competente” in scrittura visiva, e avevo una
migliore conoscenza dei programmi di scrittura per il cinema. Quando mi sono
iscritta al suo corso”Write Your First Draft Fast” volevo qualcuno che mi seguisse passo passo
nella stesura della sceneggiatura e che mi guidasse nelle scelte obbligate che
uno sceneggiatore deve fare quando adatta una storia di narrativa al grande
schermo. Ho trovato il corso giusto per me: Christine è una donna pragmatica,
sempre incoraggiante, sempre disponibile, sempre pronta a rispondere ai tuoi
dubbi, ma è anche una critica accurata e motivata. È stata capace di criticarmi senza mai
scoraggiarmi, anzi facendomi sentire che la mia storia era importante e unica.
Mi ha spinto a riflettere a fondo sulle
scelte che facevo, tenendo conto di ciò che il mercato richiede, ma sempre con
un profondo rispetto di ciò che ero e sono come persona e come aspirante
sceneggiatrice. Una dote non comune per un insegnante, un’ispirazione per me
visto che insegno anche io.
In Italia la principale scuola di cinema, la SNC, fino a pochi anni fa
impartiva agli studenti di sceneggiatura testi di prosa e critica letteraria e
gli insegnanti rivendicavano l’importanza di leggere soprattutto romanzi, come
se il cinema fosse una pratica ancillare della letteratura. Nella didattica c’è
ancora molta confusione e, come se non bastasse, nella classe intellettuale c’è
ancora chi solleva il dubbio che un’arte creativa non si possa insegnare. Sei
d’accordo con questa tesi tutta italiana?
Ho un po’ di difficoltà a rispondere a questa domanda, visto
che tutti i corsi di scrittura creativa, scrittura per l’infanzia e di
sceneggiatura li ho fatti con insegnanti americani, dunque non parlerò di
didattica italiana riguardante la sceneggiatura. I miei professori non mi hanno
mai fatto un discorso sul talento o sul dilemma se si debba o si possa
insegnare la creatività, ma mi hanno detto qualcosa di molto più pratico che in
parole povere “suona” così: “Vuoi scrivere? Bene, allora scrivi. Visto che ti
sei iscritta al mio corso è mia responsabilità darti gli strumenti per fare il
tuo lavoro al meglio.” Dunque sembrerebbe proprio che secondo i professori
americani, almeno quelli che ho conosciuto io, l’arte creativa non solo si
possa insegnare ma si debba insegnare a chi vuole imparare.
Personalmente non so se si possa insegnare ad essere
creativi, proprio perché non si può spiegare l’atto creativo. Non sappiamo
definire la forza che spinge un pittore a dipingere, un musicista a suonare o
uno scrittore a scrivere. Non sappiamo se l’atto creativo sia innato oppure sia
il frutto di esperienze, istruzione ed educazione. Alle volte gli artisti son
figli d’arte, alle volte no.
Mi è successo di essere in disaccordo con persone italiane
riguardo al talento. Di cosa si tratta? Di qualche dote innata? E di che
genere? Sono convinta, proprio perché sono un’insegnante, che se il talento c’è
rappresenta forse l’ 1% o il 2% del prodotto finito. Il 98% o giù di lì è duro
lavoro. Il talento e l’ispirazione sono forse l’idea iniziale e la “scintilla
mentale” che ci porta a creare, anche se non sempre sappiamo da dove vengano. Senza
autodisciplina, autocritica, apertura alle critiche esterne, voglia di cambiare
e di crescere, tenacia e tanto lavoro “gratuito” (per gratuito intendo la
coscienza che l’investimento in tempo ed energie non portino necessariamente al
successo e alla remunerazione economica che spesso lo accompagna) il talento da
solo riesce a produrre ben poco. Credo
che leggere sia importantissimo, e che se abbiamo doti innate per la scrittura
si svilupperanno leggendo.
Hai al tuo attivo la
sceneggiatura del cortometraggio “Un amato funerale”, scritto a quattro mani con
Luca Murri, e realizzato con la fotografia di Daniele Ciprì e gli attori Milena
Vukotic, Giorgio Colangeli, Luca Murri e Carola Clavarino. Con la sceneggiatura
del corto “Vorrei essere…” sempre scritta con Murri sei stata finalista sia al
concorso “Il cortificio” che al concorso “Corto e Cultura”. Infine, il tuo
copione originale de “La vacanza americana” è arrivato in finale al
“Valpolicella Film Festival”. Dopo tutte queste esperienze, quali sono gli
elementi che secondo te non dovrebbero mai mancare in un buon cortometraggio?
Ci sono dei segreti e dei trucchi per scrivere una storia breve che funzioni?
Scrivere “Un amato funerale” con Luca è stato un magnifico
viaggio e gli sono grata di avermi scelto per scrivere con lui la sceneggiatura
della storia che aveva in mente. Abbiamo un metodo di lavoro simile, e siamo
entrambi concentrati e seriamente impegnati in ciò che crediamo. Il corto è
diventato una realtà ed è stato presentato lo scorso 16 e 17 aprile prima a
Catania poi a Nicosia con grande successo.
Come tutte le storie scritte per il cinema il cortometraggio
deve raccontare la storia per immagini, avere un bel personaggio principale, un
problema principale, un antagonista, un crescendo narrativo e deve risolvere il
problema poco prima della fine. Insomma deve avere in piccolo tutte le qualità
di un lungometraggio. Ma visto che di
corto si tratta e dunque di qualcosa di fruibile in poco tempo, un buon cortometraggio
deve essere “focalizzato”. Gli intrecci secondari, come i personaggi secondari,
se ci sono, possono solo essere appena abbozzati, altrimenti lo spettatore si
confonde e non segue più l’intreccio principale. Più il corto è breve e più il
lavoro diventa difficile. Mi sono divertita tantissimo a scrivere con Luca “Il
fondo”, una commedia sui problemi del cinema italiano che dura poco più di 5
minuti. Il cortometraggio è un’ottima palestra per gli sceneggiatori e mi
dispiace che non solo in Italia, ma anche in Europa, sia poco valorizzato,
soprattutto per problemi di distribuzione al grande pubblico.
Hai scritto una sceneggiatura direttamente in inglese
intitolata “Chasing White Infinity” tratta dal tuo romanzo di
avventura-fantascienza intitolato “La corsa e l’infinito”. Perché hai scelto la fantascienza, un genere poco praticato dalle donne?
Volevo scrivere un romanzo
ambientato nel mondo delle corse di Formula 1. Mi affascinava la domanda del
perché alcune persone rischiano la vita lanciandosi ad altissime velocità su
dei circuiti chiusi e, più in generale, del perché noi uomini non ci
contentiamo mai dei nostri traguardi raggiunti, ma abbiamo bisogno di darcene
sempre di più ambiziosi o di più lontani. Ho la fortuna di avere un figlio
appassionato di Formula 1 che lavora per una scuderia di Formula 1 come
ingegnere aerodinamico. Parlando con lui mi è venuta l’idea del mio personaggio
principale, Valen, un ex asso del volo decaduto e depresso che vuole riscattarsi e cominciare una nuova vita. Non
conoscevo però bene l’ambiente delle corse. La scelta di ambientare il romanzo
su di un pianeta lontano in un’altra galassia, mi è sembrata la migliore per
non scrivere imprecisioni. I razzi con i quali i miei personaggi corrono sono
un bel miscuglio tra aerei effetto suolo e macchine di F1, non esistono nella
nostra realtà. Mi son dunque potuta sbizzarrire e far far loro ciò che più mi
piaceva, sotto la guida di mio figlio perché le competizioni potessero risultare abbastanza plausibili.
La fantascienza è un genere narrativo
molto filosofico, secondo me. I grandi autori di fantascienza si sono posti il problema della nostra
condizione umana forse con più intensità di altri. Penso ad esempio a Philip
Dick che si domanda ripetutamente cosa significhi essere cosciente e dunque
cosa significhi essere uomo, oppure al grande Asimov che aveva una fiducia
cieca nella nostra capacità di controllare le macchine e diciamo più in
generale nella scienza. E non menziono qui gli altri innumerevoli grandi autori
della letteratura di genere, grandi per le loro idee ma anche per il loro
talento letterario. La fantascienza si interroga sul nostro futuro, sulle
nostre più grandi paure ma anche le nostre più grandi conquiste e, in un mondo
sempre più dominato dalla tecnologia, fa bene fermarsi un attimo e riflettere alle
immense opportunità offerte dal periodo storico in cui viviamo, ma anche ai
suoi incredibili pericoli. E’ vero che
il genere spesso non piace alle donne,
benché il primo romanzo di fantascienza sia stato scritto proprio da una donna:
Mary Shelley. Frankenstein non è forse una riflessione sui limiti della
scienza, sull’etica dello scienziato, e sul dilemma esistenziale della morte e
della rinascita? Una riflessione profonda sul senso della vita che si ripropone
oggi in modo prepotente con i nuovi traguardi offerti dalle nanotecnologie e le
ricerche di genetica. In Italia la fantascienza è un genere spesso considerato “minore”,
ma è una problematica tutta italiana che non condivido. Spero comunque che
sempre più donne comincino a leggere fantascienza e che non rimanga ancora per
molto un genere considerato maschile.
Le società cinematografiche italiane sono restie a produrre film di
genere e con grandi budget. Hai mai provato a proporre il tuo script in Italia?
Mi rendo conto (e non l’ho detto solo io, ma la mia
insegnante e altri consulenti che hanno letto la mia sceneggiatura) di aver
scritto la sceneggiatura di un film molto costoso. Non ho provato a proporre lo
script in Italia, primo perché lo dovrei tradurre, e poi per problemi di budget
che credo in Italia spaventerebbe qualsiasi produttore. La fantascienza, come
ho detto prima, non è “ben vista” in Italia, non credo che i produttori leggerebbero
il copione sapendo che si tratta di una corsa di velivoli inesistenti nella
realtà. Spesso le scelte dei produttori italiani (e non solo) sono fatte per
piacere al grande pubblico, e perché ci sia, giustamente, un ritorno economico
per il grande investimento fatto. Il rischio con il mio copione sarebbe
probabilmente troppo alto, ed io non sono abbastanza conosciuta. Che ti devo dire? Scriverò altre sceneggiature
pensando un po’ meglio al budget in futuro!
Stai promuovendo la sceneggiatura di Chasing White Infinity attraverso i
nuovi mezzi digitali, siti e contest americani. Ci puoi parlare di questi service,
delle opportunità che fornisce internet e dell’utilità che possono avere alcuni
siti per chi cerca un riscontro al proprio spec script?
Ci sono diversi canali per arrivare ai produttori americani.
La Rete senza dubbio offre delle nuove opportunità. Prima di contattare un
qualsiasi produttore però, bisogna essere sicuri che la sceneggiatura che
abbiamo scritto sia la miglior cosa che potevamo scrivere. Poi avere in mano
una logline, una query e una sinossi di una pagina.
La logline è una frase, al massimo due, che sintetizza il
film.
La query è una breve lettera di presentazione di se stessi e
del progetto che si intende inviare.
La sinossi è un riassunto di massimo una pagina della storia.
Attenzione la sinossi, la query e la logline devono invogliare il produttore a
leggere la sceneggiatura, non devono raccontare per filo e per segno tutta la
storia. E devono essere brevi in quanto ai produttori americani arrivano
progetti in continuazione e non hanno il tempo di leggere qualcosa di lungo.
Una volta che si hanno logline, query e synopsis i canali che
ho usato, e che sto usando ancora, per contattare i produttori americani sono
questi:
- Il
canale tradizionale: consiste nel fornirsi di una lista dei produttori
americani e canadesi, ad esempio comprando il libro “Hollywood Screenwriting
Directory” e spulciando con la santa pazienza la lista fornita di indirizzi,
telefoni, mail e siti web. Io telefono sempre prima di inviare una query anche
se sull’elenco c’è scritto che accettano “unsolicited material” (materiale
non richiesto) perché questa
affermazione non è sempre vera. Con la telefonata chiedo anche il nome della
persona alla quale indirizzare la query.
- Il canale dei concorsi di sceneggiatura in USA
e Canada: ce ne sono a bizzeffe, ci si può iscrivere a “Withoutabox” per essere
aggiornati. Non ho usato ancora questo canale, è abbastanza costoso.
- Ho
usato invece Virtualpitchfest e Inktip, sono due siti tramite i quali puoi
inviare una query direttamente ai produttori che si sono iscritti a questi
siti. Con Virtualpitchfest.com puoi comprare un pacchetto di 5 produttori e
contattarli tramite il sito. Sono obbligati a rispondere entro 5 giorni
lavorativi (e rispondono!). C’è una lunga lista di produttori affiliati e si
tratta di controllarli uno ad uno e scegliere a chi inviare la query. Con 90 $
si può comprare un pacchetto di 10 produttori e si ha la consulenza gratuita
per la query, ciò vuol dire che c’è un consulente che corregge la query e dà istruzioni per
migliorarla. Io ho comprato questo pacchetto e non mi sono trovata male. Se ci
si iscrive a Inktip si riceve gratuitamente la newsletter con liste di 3 o 4
produttori alla settimana e di ciò che al momento vogliono (commedie
romantiche, horror ecc…). Si può inviare la query tramite il sito di Inktip che
garantisce di inviarla alle persone che vogliono leggerla all’interno della
casa di produzione che ha richiesto le sceneggiature.
- Andare
ai festival in Europa e in USA dove si fanno i “pitch” davanti ai produttori,
cioè dove si può presentare in pochi minuti il proprio progetto. Su youtube si
possono trovare delle registrazioni di pitch che sono veramente molto
interessanti da guardare. Non ho usato questo canale, ma se decidessi di usarlo
farei un breve corso su come presentarmi e come presentare il progetto. Non è
facile attrarre l’interesse dei produttori in 3 o 4 minuti di tempo.
Finora hai ottenuto qualche risposta da parte di società estere? Sei
riuscita ad attirare l’interesse di qualche produttore americano?
Ho contattato 8 produttori tramite VirtualPitchFest e ho
avuto 8 risposte negative. Alcuni mi son sembrati molto sbrigativi, uno mi ha
riposto che stanno lavorando a un progetto simile al mio e che ci sarebbe
conflitto, due mi hanno scritto che il progetto era troppo costoso per loro in
questo momento.
Altri due produttori americani contattati tramite
l’”Hollywood Screenwriting Directory” hanno voluto le prime 20 pagine della
sceneggiatura e mi hanno risposto anche loro che il progetto era troppo caro.
Quale sono i film che più ti hanno influenzato
nella tua attività di scrittrice?
A influenzare la mia attività di scrittrice di narrativa e
teatro sono state le mie letture di romanzi e di opere di teatro. Ho passato
l’adolescenza a leggere di tutto, e ancora sono un’avida lettrice. Sono sempre
andata al cinema e, nei miei otto anni a New York, non solo andavo al cinema
spesso ma affittavo una quantità incredibile di film. Il videonoleggio sotto
casa a Manhattan affittava il martedì e il mercoledì tre film al prezzo di due!
Ne ho approfittato anche se alle volte dopo tre film in 24 ore avevo un po’ di
confusione in testa. Il cinema è parte della cultura americana quotidiana, è
vero che è stato inventato dai fratelli Lumière, ma gli americani se ne sono
appropriati subito, forse proprio perché il cinema ti fa sognare, e il sogno
americano è ancora una realtà. Quali film mi hanno influenzato? Tantissimi: da
“Via col vento” agli “Indiana Jones” passando per René Clément, Charlie Chaplin,
Buster Keaton, Woody Allen, Nancy Mayers, Nora Ephron e molti molti altri! Ad
un certo punto ho pensato che forse mi sarebbe risultato facile scrivere
sceneggiature e non mi sono sbagliata, ma non avrei mai potuto scrivere un
copione se non fossi stata prima una grande amante della letteratura e del
teatro, se non avessi passato anni e anni immersa nella lettura di romanzi di
tutti i tipi, e serate intere a guardare film.
Cosa pensi del cinema italiano, delle
sue potenzialità commerciali e delle sue attuali tendenze espressive?
Il cinema italiano spesso è scritto e
girato per il mercato italiano e non riesce a varcare i confini del nostro
Paese. Ma questo problema esisteva anche molti anni fa: i film di Totò, che io
adoro, ad esempio, sono intraducibili e possono dilettare solo noi italiani. Alcuni
grossi successi di botteghino del 2013 non si possono tradurre e la loro
comicità è prettamente italiana, dunque non comprensibile a un inglese, un
francese, un finlandese o un americano. Abbiamo però prodotto degli ottimi film,
naturalmente penso ai nostri grandi registi
come Fellini, Visconti, Antonioni ecc… fino ad arrivare a Benigni e al nostro
ultimo premio oscar. L’anno scorso ho visto dei film scritti benissimo, coerenti e ben diretti,
come “Tutti i santi giorni” e “Il capitale umano”, ma anche il delizioso
“Scialla” e il divertente “Amiche da morire”. Benché diversissimi tra loro sono
film che potrebbero avere successo anche all’estero. Ciò che un po’ mi
rammarica in Italia è l’idea che una commedia non possa essere un “grande
film”. Benigni ha dimostrato il contrario, ma diciamo che è stato l’eccezione
che conferma la regola.
[1] Questa
intervista inaugura il ciclo di interviste TE LA DO IO L’AMERICA, testimonianze rese da italiani che si cimentano col mercato estero, professionisti e non, producers, attori, scrittori e registi.
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