martedì 18 dicembre 2012

INVESTIRE NEL CINEMA E' VANTAGGIOSO, A PATTO CHE...

...Ci siano nel campo audiovisivo dei veri imprenditori.
I film possono tornare ad essere il volano della nostra industria, ma mancano le figure professionali adatte a interfacciarsi con il mondo sano della finanza e delle imprese.
Cercasi produttori competenti, dinamici e intraprendenti. E che si esprimano in italiano (magari anche in inglese).  


L’incasso del cinema italiano nel mese di ottobre è di 464,6 milioni di euro, con un decremento di 9,1%. La colpa è da attribuire alla categoria dei produttori, una casta incapace di sintonizzarsi sulle esigenze dei giovani e di imporsi sulle scelte degli autori. A parlare non è un contestatore radicale o uin cane sciolto, ma Pietro Valsecchi, uno dei più noti produttori cinematografici. Valsecchi ha puntato l’indice verso quei colleghi che hanno usufruito ripetutamente di fondi statali senza riportare mai un risultato adeguato. Ed in effetti in Italia il problema non sembra essere la mancanza di soldi, ma l’abbondanza e i conseguenti sprechi.

 I produttori dovrebbero tornare a fare gli imprenditori, a selezionare proposte e contenuti, investire sulle risorse migliori, conoscere le regole d’impresa, rispondere alle sfide poste dal mercato nazionale e straniero ed immaginare un futuro del cinema nel lungo periodo.

Quello che abbiamo visto finora, invece, è un film già visto, di produttori che vanno a bussare alle porte del Mibac o di Rai Cinema per chiedere i soldi, che cercano di aggiudicarsi una prevendita del lungometraggio con la televisione di Stato, magari scomodando il politico di turno, oppure nel migliore dei casi si muovono con l’appoggio dell’altra grande partnership del settore, quella di Medusa, e poi – in bassa percentuale – chiudono il loro budget servendosi di investitori privati. E’ un film vecchio, visto troppe volte per non apparire logoro e privo di forza. I risultati li conosciamo e sono sotto l'occhio di tutti: produttori ridotti a fare i passacarte, soffocamento dell’impresa cinema, ripetizione delle solite storie, dei soliti attori e dei soliti registi, mancata circolazione di nuove idee, film brutti e poco appetibili per i giovani, inesistenti strategie di marketing, pesante discredito dei prodotti italiani sul mercato internazionale e di recente disaffezione del pubblico nostrano per i cosiddetti “autori” (il flop delle ultime opere di Virzì, Soldini, Bellocchio, Garrone e Luchetti stanno a dimostrarlo).  

E dire che le opportunità di business offerte dalla celluloide, ad oggi, sarebbero una realtà concreta e percorribile. La normativa del tax credit infatti consente ai grandi gruppi industriali ma anche alle piccole aziende di investire liquidità nel cinema e non solo di recuperare quei soldi grazie all’incentivo fiscale, ma anche di trarre una percentuale dei profitti derivati dallo sfruttamento commerciale.   

Se un soggetto esterno all'industria cinematografica decide di partecipare alla produzione di un film, gli sono riconosciuti importanti agevolazioni fiscali (un credito di imposta del 40%). L’investimento nel settore diventa così per gli industriali una forma alternativa alla Borsa o ai titoli di Stato e, per certi versi, anche meno rischiosa e più redditizia. L’investimento massimo per il quale è possibile fruire del tax credit è di 2,5 milioni di euro e non può comunque superare il 49% della spese totali di produzione del film. Naturalmente i soggetti privilegiati sono le banche, per la loro capacità di monetizzare. Intesa, la Popolare di Vicenza, Bnl, Unicredit, il Monte dei Paschi di Siena e altri istituti hanno già utilizzato questa forma di incentivo.
 

Ma il produttore nostrano preferisce la scorciatoia dello Stato, è affezionato alle pratiche burocratiche e non perde il vizio di sperare nella manna piovuta dal cielo.
Non sa, o non vuole, costruirsi la sua fortuna cercando di costruire un rapporto con soggetti terzi e dialogando con la parte sana dell’imprenditoria italiana, quella che ha i profitti in attivo ed è disposta a dare credito all’audiovisivo. Trova più facile sfruttare i soldi pubblici e montare un progetto coinvolgendo i professionisti a cui lo Stato non può dire di no (sceneggiatori, attori e registi consolidati), rifiutandosi di vagliare facce nuove, linguaggi diversi, storie originali.

Ecco perché la crisi degli incassi in Italia diventa una crisi di sistema, l'apparato già fragile e clientelarizzato del mondo cinematografico sembra aver contratto un virus inarrestabile e  si rischia, proseguendo in questo modo, di bruciare tutti i progressi compiuti sinora a livello di immagine sul mercato interno e di mandare all’aria la concessione di fiducia che alcune banche hanno fatto all’universo dell'audiovisivo. Basti guardare certe operazioni di BNL, che pure ha avuto il merito di stipulare contratti di associazione anche con produzioni indipendenti e società di piccole dimensioni: spesso gli esiti commerciali non sono stati lusinghieri e l’uscita nelle sale si è fatta attendere, come per Un giorno questo dolore ti sarà utile (Roberto Faenza), La scoperta di Patò (Rocco Martellini), Missione di Pace (Francesco Lagi), Into Paradiso (Paola Randi), Ti ho cercato in tutti i necrologi (Giancarlo Giannini) e, con la partecipazione finanziaria ad Acciaio (Stefano Mordini), si è arrivati a racimolare la somma striminzita di 180.000 euro al botteghino.

Al Gruppo Montepaschi non va meglio, nel suo investimento complessivo di circa 2 milioni di euro, con Buongiorno papà (Edoardo Leo), Tutti i santi giorni (Paolo Virzì) e La città ideale (Luigi Lo Cascio).
Nella speranza che le delusioni non siano cocenti e che gli investitori non smettano di scommettere sul cinema, rimane da registrare l'assenza di una figura professionale che parli il linguaggio del cinema ma anche quello delle imprese, che sappia interconnettere produzione e finanziatori privati. Manca ancora nella nostra penisola il "cacciatore" di investimenti, il produttore abile nelle public relations che abbia le capacità di convincere una banca o una azienda di calzettoni che mettere soldi in un film non è così svantaggioso. Manca il produttore che sia in grado di valutare la forza di una storia e che non ti venga vicino dicendoti "mi è venuto in mente un film" e raccontandoti una cagata. Manca il produttore che non veda il marketing come un fastidio da sopportare ma immagini il target di riferimento del film, concepisca come e quando proporlo al suo pubblico e non consideri i quattrini come lo sterco del demonio. Manca il produttore che pensi allo sfruttamento internazionale del film e si muova a suo agio in scenari europei e mondiali. Manca il produttore che migliori il livello di controllo del budget e ottimizzi le risorse. Manca, insomma, il produttore dei paesi più avanzati, dalla Francia alla Norvegia ad Israele, che in questi anni ci hanno dato lezioni di economia e di cinema.  
Nella interessante galleria di imprenditori folli di Mad in Italy - il libro edito da Rizzoli - spicca la figura di Simone Bachini, ex biologo molecolare che ha cambiato città e lavoro ed ha saputo incarnare al meglio il ruolo di produttore, con la sua Aranciafilm, grazie alla tenacia e al coraggio. Tutti gli imprenditori raccontati nel libro, che sono stati tanto pazzi da restare in Italia a fare impresa, affermano: "Se siete caduti sotto i colpi della crisi, vi invitiamo a rialzarvi. Noi lo abbiamo fatto. Se state rischiando di cadere, possiamo darvi dei condsigli per rimettervi in equilibrio, aiutandovi a vedere la realtà da una prospettiva diversa". 
Giampaolo Letta ha detto: «Qualsiasi impresa per diversificare i propri investimenti può puntare sul cinema ottenendo risultati finanziari positivi. Anche le piccole e medie imprese. Senza considerare che oltre al ritorno economico diretto un'azienda può veicolare nel film un proprio prodotto o un messaggio di marketing». Purchè si abbia idea di cosa sia il marketing.

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